Prima della costruzione della strada napoleonica del Sempione nel 1805, la via delle merci era il Toce, poi il Lago Maggiore e il Ticino, fino a Milano in via Laghetto, proprio accanto al Duomo. Viaggiavano così il marmo di Candoglia per la costruzione della cattedrale ambrosiana, e soprattutto i tronchi faggio e larice, di cui era ricchissima tutta l’Ossola e le sue convalli, la Val Vigezzo e la Val Grande, legna buona per tutto, per le costruzioni, i ponteggi, i mobili, il fuoco. La secolare via d’acqua del Toce e del Verbano fu utilizzata fino alla metà del Novecento, almeno fin quando treni e camion non sostituirono completamente il lavoro dei “marinai di montagna”. Lo stesso accadde sull’Adda e sul Lario, dallo Spluga a Como; e pure l’asta del Po venne piano piano abbandonata dalle lunghe chiatte nere. Il burchiello sul Toce, fondamentale taxi tra una sponda e l’altra, sopravvisse fino alla costruzione della passerella nel 1925. Trascurando per il momento i marmi diretti a Milano, racconteremo la storia di questi antichi trasporti di legna, persone, carrozze e cavalli.
Scfende, ciuende e seere
I tronchi, quando non c’erano ancora le teleferiche, venivano giù dai monti verso la piana, grazie al lavoro dei borradori, che impiegavano metodi semplici e ardimentosi, come la cosiddetta scfenda, conosciuta anche come sovenda, un viadotto fatto di legno.

La legnovia allestita per il trasporto delle borre dalla Valle dell’Impossibile, impiantata dalla Ditta di Giovan Battista Righetti di Intra, con l’aiuto del suo capo boscaiolo Antonio Minoggio. Nell’immagine il primo ponte che attraversava il torrente Isorno. La foto è di G. Ruggeri, Domodossola ed è tratta dal libro L’Ossola nella fotografia d’epoca, Domodossola, 1996, Grossi Editore. La Valle ha questo nome dall’imboccatura strettissima
Sostenuto da cavalletti, poteva essere anche molto lungo, come quello che fu costruito dalla Piana di Vigezzo a Toceno che misurava otto chilometri; veniva allestito all’inizio del taglio e tenuto in attività per alcuni anni.

Borre ammucchiate al termine della legnovia nella Valle dell’Impossibile. La presenza umana evidenzia le dimensioni di questi manufatti. Foto di G. Ruggeri, Domodossola, tratta dal libro L’Ossola nella fotografia d’epoca, Domodossola, 1996, Grossi Editore.
Questa pratica era adottata dalla fine del Settecento e si fabbricava in Vigezzo e in Vall’Anzasca, dove era chiamata ciuenda o ciuvenda. Il natutralista Antonio Stoppani vide nel 1870 una cioenda in che correva da Macugnaga a Ceppomorelli e la definì “un portento nel suo genere”.

Foto di gruppo di boscaioli con i loro attrezzi. Quasi tutti tengono in mano i ferri del mestiere: il quarto uomo ha in spalla una tapà, parte di un piccolo tronco diviso per le lunghezza in quattro parti, il secondo tiene un ramundin, tronchetto della misura standard. Informazioni da Giuseppe Testori Foto Archivio Enzo Azzoni, Pallanza
Si lavorava meglio d’inverno: il manufatto inondato d’acqua e neve, gelava e diventava una “legnovia”, uno scivolo perfetto. La scfenda era sorvegliata da guardiani, detti puscté, che sostavano nei posti pericolosi e nelle curve, dove i tronchi avrebbero potuto scivolar fuori. Passato il tronco, il guardiano lo segnalava con un grido al compagno che stava sotto.

Una rara immagine della lunga cioenda dell’Alpe Veglia, che restò in funzione fion verso il 1890, foto dalla collezione Bazzetta de Vemenia, in A.A.V.V., Ossola Storia Arte e Civiltà, Anzola, 1993, Fondazione Enrico Monti
Il buio non fermava il lavoro, i falò segnalavano i posti di guardia, illuminavano e riscaldavano. L’acqua era l’unico mezzo per muovere le borre, i tronchi già scortecciati e levigati, ma non certo sicuro; accadeva che la legna si frantumasse contro i macigni, si perdesse, o che fosse rubata.

La cioenda della Valle dell’Impossibile al secondo ponte sopra l’Isorno. Foto di G. Ruggeri, Domodossola, tratta dal libro L’Ossola nella fotografia d’epoca, Domodossola, 1996, Grossi Editore.
A valle i torrenti facevano proseguire il tragitto. E quando l’acqua non aveva forza sufficiente, si facevano piccole dighe temporanee di legno, in modo da formare un bacino da aprirsi al momento opportuno. Talvolta ne venivano creati anche due o tre e si iniziavano a svuotare quelli più in alto.

La stazione d’arrivo della legnovia dalla Valle dell’Impossibile (m. 3170). Foto di G. Ruggeri, Domodossola, tratta dal libro L’Ossola nella fotografia d’epoca, Domodossola, 1996, Grossi Editore.
La chiusa di Campo Vallemaggia, in Ticino, era lunga 84 metri e alta 12. Questi invasi erano chiamati seere, o sarina quando erano piccoli. Dall’alto il puscté ordinava di batt la sèra e un palastrat doveva calarsi dall’alto, legato ad una fune, per far saltare con un colpo la palizzata.
Borradori e Lacomagi
Giunti sul Toce, i tronchi erano poi legati insieme con catene di ferro e fatti scivolare nella corrente. Gli addetti, che si chiamavano mazzellari, stazionavano nei luoghi dove di solito il legname si incagliava e, con arpioni particolari detti rampall, provvedevamo a rimetterlo in corsa. Il rampall era uno strumento fatto da due lame fuse insieme: una ricurva si aggrappava al tronco per tirarlo, l’altra terminava con una punta per spingerlo. Le condizioni migliori per il trasporto erano ovviamente le piene. Boscaioli e mercanti di legname si urtavano spesso con la popolazione locale, che li accusava di danneggiare mulini e segherie sulle rive del fiume. Per individuare eventuali colpevoli, i flottatori o i padroni del legname marchiavano ciascun tronco con un bollo riconoscibile, ma quando c’erano da pagare le multe sapevano bene come far saltare il marchio con un veloce colpo di scure.

Intra nel primo decennio del Novecento. A destra la prua di due barconi da carico, Pallanza e l’Ossola, donne chine sulla briela (un asse dove a ginocchio lavavono i panni ) mentre a destra si vedono le cataste di legno che caricavono o scaricavano dai barconi. Foto di Bruno Suna, Verbania Antiche Immagini
Enrico Bianchetti, storico di Ornavasso dell’Ottocento, ricordava che nel Seicento gli imprenditori furono addirittura accusati di stregoneria e denunciati: “Col mezzo della locomagia godevano del potere di provocare a loro talento le grandi piogge per aver modo di tradurre al basso per via della flottazione i tronchi d’alberi delle nostre foreste”. Allora si credeva nella lacomagia, o lacomanzia, la capacità di provocare eventi atmosferici con un sortilegio. E boscaioli, trasportatori e mercanti non avevano la migliore reputazione

La cosiddetta Agenzia Vecchia al porto di Intra era un capannone coperto che serviva come magazzino per le merci da smistare
Il Toce era navigabile dall’alta Ossola fino al lago Maggiore. Melchiorre Gioia scrive nel Dipartimento dell’Agogna, del 1813: “Dalle valli dell’Ossola, ricchissime di boschi, scendono le più belle piante per la Toce e vanno ad essere segate ad Intra, o, passando pel Verbano, pel Ticino, pel naviglio di Bereguardo, compariscono nella capitale del Regno … Oltre che per la navigazione è usata per seghe, mulini, trasporto di borre. Allorché le acque sono alte la navigazione sulla Toce giunge fino a Crevola”.
Lavoro e commercio

L’affresco, che illustra il lavoro dei navaröi del Toce, sul muro del ristorante Ca d’navaröi di Vogogna
Le barche sul Toce erano tirate da cavalli, che trainavano barconi e chiatte marciando sulle rive, dette Alzaie: l’espressione deriva dalla fune che serviva per legare le imbarcazioni. Se la strada di ripa era interrotta da case o da moli, la navigazione proseguiva a remi. La legna arrivava al gabbio di Intra, alla foce del San Giovanni, dove le borre venivano smistate: da una parte quelle da consegnare nelle segherie della cittadina, dall’altra quella, da legare in zattere e far navigare verso le fornaci di Laveno e Caldè, o a Milano via Naviglio. Talvolta arrivavano già fatte fin dalla foce del Melezzo o da Masera. In dialetto le zattere erano si chiamavano ceppate, ovvero costruite da borre legate, in ossolano ciupà.

Una grande zattera a Luino. Questi natanti erano costruiti da tronchi legati insieme con corde e ganci di ferro Erano dotate i due alberi, con vele quadre e un timone di direzione. All’arrivo venivano smontate per vedere i tronchi. La foto è di Daniele Tinelli di Gorla, dal libro Barche del Lago Maggiore di Francesco Rusconi-Clerici
I barcaioli stavano in piedi sopra le grandi zattere, simili quelle descritte da Mark Twain in Le avventure di Huckleberry Finn, muovendosi abilmente con remi o bastoni. Alla fine del Cinquecento il dazio dei Visconti a Sesto Calende tassava mediamente “115 zattere di borre, borretti, travi, cantironi e cantiri”. Il lungo viaggio sul Ticino verso la pianura era avventuroso perché la velocità delle rapide arrivava anche a 15 nodi. I blocchi di marmo per il Duomo erano caricati sui cosiddetti zatteroni, che poi erano grandi barche fatte di legno e non di tronchi legati.

Xilografia del trasporto di massi granitici per la base del monumento di Vittorio Emanuele a Genova, 1886. Dal sito Stampe Antiche di Sergio Trippini
Le merci che venivano dalla città per essere vendute nei paesi, erano stipate nelle suste, appositi magazzini di legno con la funzione di negozi, che si trovavano nei porti lungo il fiume. Quella di Anzola si chiamava Ca’ d’Bedu, ovvero di tale Bedulin, ed era anche locanda ed osteria. Le località del Lago Maggiore ricavavano vantaggi notevoli. Ne scrive Quintino Rossi nel libretto Comune di Suna: Guida Monografica del paese e suo territorio, edito dagli Eredi Vercellina nel 1910: “Prima della costruzione dell’attuale via nazionale, che costeggiava tutta la spiaggia lacuale, partendo da Pallanza e arrivando fino a Fondotoce, la strada si chiamava Alzaia, e quando non era coperta dall’acqua del Lago, veniva utilizzata soltanto dai proprietari dei barconi speciali (molti con tiemo o casotto di legno) per la navigazione, che erano di Pallanza o di Suna; che li facevano trainare da cavalli sia nell’andata che al ritorno, carichi, o non, di merce, lungo la ripa lacuale e sul Toce … Pel passato, il commercio del nostro paese era piuttosto florido, perché dato dalla navigazione, in allora, unico mezzo di trasporto e che veniva praticato con speciali barconi, usabili anche nel fiume Toce. Essi erano trainati da cavalli e lo salivano carichi di granaglia diretti ai paesi dell’Ossola, ritornandone con lastre di pietra, legname, carbone ed altro; tutta merce, che, in generale, era semplicemente di transito, perché destinata a lontani centri maggiori.

Grosse lastre di marmo nel porto di Suna. Foto di Eliseo Petoletti, Verbania Antiche Immagini
Però molte delle pietre grezze si scaricavano sulla nostra riva, così per la lavorazione ordinaria, come per quella artistica, trovandovi lavoro continuo centinaia di operai del paese, ben apprezzati e rimunerati. Qualche negoziante, una volta alla settimana, si recava nell’Ossola, specialmente a Dove su quell’attivo mercato faceva trasportare a mezzo della navigazione sul Toce, la granaglia che si procurava sugli importanti mercati di Arona e Laveno e che lassù trovavano facile smercio. Quivi poi faceva acquisto di prodotti del luogo, quali burro, formaggio ed altro che, collo stesso mezzo conduceva in paese, da dove veniva spedita altrove, affidata a spedizionieri, che dai loro conducenti, facevano arrivare a destinazione”.
Quando a Dio piacque arrivammo alla sponda
La barca, in assenza di ponti, era l’unico mezzo per passare da una parte all’altra. Fin dai tempi antichi, tra la sponda di Ornavasso e quella di Candoglia esisteva un servizio di traghetto per persone, bestie e merci. Sulle carte ottocentesche era riportato con un tratteggio e veniva raffigurata anche la barca. Il primo porto che esisteva in alto sul Toce era a Roledo di Montecrestese e l’ultimo era il Basso di Fondotoce. In mezzo vi erano i porti di Masera, Beura, Cardezza, Masone, Dresio, Megolo, Anzola, Cuzzago, Migiandone, Candoglia e Mergozzo.All’attracco c’era un sisitema di pali e di anelli che trattenevano il filo (gamello) che attraversava il fiume.
Quando il “porto era in corda”, nei tempi di magra, si collegava la nave grande al gamello, che attraversava il fiume e doveva cambiare posizione se mutava la corrente. Se invece il fiume era salito per la piaggia si tirava fuori una navetta, detta burchiello, che non aveva bisogno della fune; in tal caso, se il fiume usciva dalle ripe, la tariffa era doppia e sul costo del traghetto nascevano infinite polemiche tra commercianti e portolani.

Il porto sulla Toce nel 1934, foto di Paolo Monti. L’edificio è conosciuto come Ca’ Carlota e fu abitata dalla famiglia di Graziella Felicioli
Nel 1836 il conte Cesare di Castelbarco aveva preso in affitto una villa al Societto di Lesa e “negli ozi sul lago autunnale, i nobili signori presero un giorno la decisione di una gita in carrozza verso la città di Domodossola ma, nel ritorno, furono sorpresi da due giorni di furiosa tempesta e si trovarono costretti ad attraversare il fiume Toce, gonfio che faceva terrore, sopra un malandato traghetto”. Le parole del Castelbarco sono trascritte in un libro dello storico Giuseppe Armocida: “La pioggia ci ha sopraggiunti mentre eravamo già nel viaggio inoltrato dunque io dissi, coraggio si vada innanzi. Figuratevi come stava l’animo mio circa al passaggio del fiume. Tuttavia per quel coraggio che talvolta in me prende piuttosto all’imprudenza, e lo confesso, ho detto si vada. Io guidava nel mio piccolo legnetto me era così bagnato come se fossi stato allo scoperto. Si giunse al porto. Il fiume faceva terrore, e l’impeto del vento era tale che mi sentii portare quasi in alto, ed i legni minacciavano di essere rovesciati. Si dovette aspettare il passaggio di altri carri ceh ci avevano preceduto. Finalmente venne il nostro momento. Il passaggio del carri era stato contrastato ma però non infelice. Le mie S.re smontarono sotto una pioggia e sotto un vento orridissimo.
Io volli salir sul porto stando nel mio legno spingendo i cavalli onde agevolare il salto che dovevano fare per la grande crescita del fiume. Mia moglie fu allora presa dalla convulsioni, però la cosa andò bene e gli altri due legni salirono pure felicemente sul porto. Si partì e quando fummo in mezzo venne un soffio di vento così gagliardo, insomma un uragano che toglieva il respiro. Il porto che andava a mulinello minacciò di capovolgersi. Fu un grido universale. Tutti ci attaccammo al cordone con una forza tale che ci riuscì di tenerlo diritto e il timoniere fece prodigio di forza. Quando a Dio piacque arrivammo alla sponda con un Te Deum universale. Ma il pericolo nel porto fu terrbile, perché codesto fiume più simile ad un torrente tutto sparso di macigni non lasciava speranza di salvezza ed il porto si sarebbe rotto in cento pezzi. Noi fummo gli ultimi che lo passarono, indi si ebbe nuovo che la violenza delle onde portò via lo scagnello ed il porto fu legato ed abbandonato dai portinaj”.
I Navaröi, traghettatori del grande fiume
I nocchieri si chiamavano navaröi in dialetto locale ed erano importanti personaggi della comunità ed era un lavoro particolarmente ambito. Il traghettatore stazionava, durante il giorno, sulla sponda e chi voleva essere traghettato lo chiamava col classico “Navaröo”. Francesco Zoppis, autore nel 1966 di La Toce, ieri ed oggi lungo il suo corso, racconta: “Pesanti barconi ne risalivano la corrente trainati da cavalli marcianti sulle Alzaie e guidati da nocchieri scamiciati ed urlanti: una emerita razza di bevitori, di spacconi, di mangiatori. Tappeggiavano alle osterie lungo il corso della Toce, una versione nostrana delle Osteria chisciottesche, ove c’era fieno per i cavalli, vino e cacio per gli uomini: ed erano al contempo scalo per le merci, magazzini portuali, oasi goderecce”.

In questa cartolina di Megolo c’è una piccola veduta del porto, detto Ul Port da Meval. Immagine dalla collezione di Roberto Il Cifero
Un proverbio diceva: “Nüi ai’ źevan: “Dòn végn i navaröi, i ròban vérź e fasöi” (“Donne, vengono i navaröi, rubano verze e fagioli”). Gli abitanti dei paesi temevano che questi uomini forestieri rubassero le verdure dell’orto, e le donne avevano dunque il compito di sorvegliare e difendere le risorse della famiglia.

Il traghetto tra Beura e Villadossola nel 1900. La foto è conservata al Museo Galletti di Domodossola e riprodotta in L’Ossola nella fotografia d’epoca
Una delle ultime testimonianze risale agli anni Dieci del Novecento: è quella di Felice Pattaroni nella sua Autobiografia di un Ornavassese – Fatti Storici e Leggendari: “Tornando agli zatteroni ed ai barconi, per i trasporti della valle lungo il Toce, va ricordato che governavano i barconi i cosiddetti ‘Navaròi’, che, scendendo, portavano le merci e anche i cavalli per la risalita …
Quando io ero bambino ho potuto vedere coi miei occhi le due strade fiancheggianti il Toce, dove, a cavallo, viaggiavano i ‘Navaròi’. Nella via del ritorno i navaroli, a cavallo, guidavano i barconi marciando controcorrente. Disposte a ventaglio c’erano le corde, che trainavano i barconi, attaccate ai cavalli che viaggiavano di pari passo alle due rive guidati e stimolati appunti dai ‘Navaròi’”.

Ul barchétt che trasportava animali e persone tra Villa e Beura. Foto nel Comune di Beura fornita da Paolo Reggiani Il caronte di turno si chiamava Angelo Cavenagi ed era detto il Cagagiald, perché a Beura c’era l’usanza di appendere le pannocchie anche sul balcone, vicino ai panni stesi. Accanto alle pannocchie anche la biancheria sembrava sporca e lui, che non era beurese, diceva che cagavano giallo. Da allora fu soprannominato il Cagagiald!
Con la Belle Époque e la costruzione della ferrovia mutano i passeggeri del traghetto: insieme alle contadine con il cacio che da Anzola vanno al mercato di Premosello salgono ora eleganti signori e signore con variopinti cappelli. La Pro Anzola nel 1911 sovvenziona delle targhe in smalto verde, con la scritta “Al Porto” e si monta una specie di campana con cassa acustica per le partenze notturne. Peccato che il portolano fingesse di non sentire il suono. L’orario era quello stabilito da secoli: la barca faceva la spola dopo l’Ave Maria della mattina e prima di quella della Sera, ma chi desiderva un passaggio fuori orario doveva pagare il sovrapprezzo.
Si pagava 10 centesimi

Emma Cerutti, il marito e il figlio sulla passerella che collegava Ornavasso e Candoglia, nei primi anni Cinquanta. Dal libro di Virginia Paravati, Ascoltando la luna nuova, Verbania, 2007, Alberti Editore
Nel libro Aspettando la luna nuova di Virginia Paravati, Emma Cerutti di Candoglia, una delle donne anziane intervistate dall’autrice, ricorda il padre Pietro, un navaröi che trasportava merci a persone da una parte all’altra del fiume, tra Candoglia e Ornavasso. “Prima c’aveva la barca normale per la gente, un po’ grossa ma mica tanto. Dopo c’era il barcone per transitare i carri coi cavalli, e cüi ch’i gh’évan la ròba … i caritìt a man ch’i ‘nàvan a Urnvàs a fa masnà (quelli che avevano la roba … i carettini a mano che andavano a Ornavasso a fare macinare i grani).

Due ragazze posano sul fiume in una foto degli anni Quaranta, dal libro di Virginia Paravati, Ascoltando la luna nuova, Verbania, 2007, Alberti Editore
Adoperavano quel barcone lì grande con le assi sopra … ma non ricordo molto bene com’era fatto, so che aveva una manovella che girava … C’era la barchetta piccola e la barchetta più grossa per la gente e dopu gh’éva ‘l barcón che mettevano su i cavalli e le macchine, ma di macchine allora qui a Ornavasso ce n’era una. Erano tutti cavalli … C’era la fune metallica attaccata con la rondella e con i remi la guidava. Ha fatto quel mestiere lì fin quando hanno fatto la passarella, dopo è andato a lavorare sul Duomo. … Se ce n’erano due o tre adoperava la barca piccola, quando il fiume era un po’ basso, se il fiume era un po’ alto allora droéva quella grossa con tacà la fune e passava così. Allora ne metteva su cinque o sei, sette, secondo come … Si pagava dieci centesimi: cinque e cinque”
Quando la Tòós si ingrossava

Un’altra immagine del traghetto sulla Toce. Immagine dalla collezione di Roberto Il Cifero
“Una volta sì l’abbiamo vista brutta e io credevo che mio papà era morto. C’era tüti ‘sti fabrichìni, éran tanti, e dalla parte di là. ‘Pédar gnì tòn, Pédar gnì tòn’. Mio papà gridava: ‘Fé ‘l gir, fé ‘l gir, che ‘n fidi mia a gnì tòv’. ‘Ma no, ma no, gnì tòn’ (C’erano tutti questi operai di fabbrica, erano tanti, eh, dalla parte di là. ‘Pietro venga a prenderci, Pietro venga a prenderci’. Mio papà gridava: ‘Fate il giro, fate il giro, che non mi fido a venirvi a prendervi’. ‘Ma no, ma no, venga a prenderci’). Aveva paura perché il fiume “era grosso, la Tòós grósa. Dopo ha preso su e è andato e la mia mamma piangeva. Andando di là è andato bene, ma venire in qua – dalla parte dove c’eravamo noi veniva giù il torrente da Candoglia – lui ha dovuto lasciare la corda molle, per via della corrente che c’era, ma veniva giù il rial e il rial purtàva ‘ndre e ‘l pudéva pü gnì, pudéva pü gnì a riva. Tüti sghiulìvan, i piangìvan e lüi vusàva: ‘Stè férm, stè férm sé da no nèm suta, sè stè mia fèrm ‘nèm suta’ (Veniva giù il torrente da Candoglia e la corrente respingeva la barca, non riusciva più a proseguire, a venire a riva. Tutti gemevano, piangevano e lui gridava: ‘State fermi, state fermi, se no andiamo sotto, se non state fermi andiamo sotto’).

Una barca al porto negli anni Trenta; sullo sfondo la passerella inaugurata nel 1925. Foto Paolo Monti da Enrico Rizzi, Anzola i secoli . una nostalgia, Anzola, Fondazione Architetto Enrico Monti, 1972
Dopo è intervenuta mia sorella, quella lì era come un uomo, e tra mia sorella e mio cugino sono andati giù sul prato, hanno buttato dentro una fune e lui l’ha presa, perché ‘l viagiàva pü ma cum un remo da dré (vogava ormai solo con un remo da dietro). Noi l’avevamo già visto sotto, se si spezzava la corda andavano sotto tutti… C’era anche un registro con i nomi dei clienti fissi: “Ne passavano tanti, quando sono andata via c’era ancora un libro dove si scrivevano gli abbonamenti per il passaggio in barca…”
Acqua chiara

Il fiume Toce dove sbocca Tocetta in una foto del 1935. A sinistra la casa del porto. ll fiume era navigabile fino a Beura, quando era “in acqua”, dalla primavera all’autunno. Foto di Paolo Monti, da Enrico Rizzi, Anzola. Una terra ossolana nella storia, Anzola, Fondazione Architetto Enrico Monti, 2000
“Una mattina è passato il Dottor Beltrami di Ornavasso e ha detto ‘Dam al cup’), che è un pezzo di legno che adoperano per buttare fuori l’acqua dalla barca. E mio papà: “Cosa vuol fare signor dottore?’ ‘ Vöi bev l’acqua d’la Tóoś’. ‘Öoh, bév l’acqua d’la Tóoś?’ ‘Eh, ti ti sé mica cusà l’è l’acqua buna, l’acqua corrente beve il serpente e bevo anch’io”.

Una famiglia in posa sul barchét di Anzola, davanti a Ca’ Carlota. Immagine fornita da Luigi Boretti
Non c’era ancora la Rumianca … dove c’era la sabbia, l’acqua l’éva pürgà” … Allora c’erano tanti pesci, poi quando è venuta la Rumianca addio. Quando c’era il mio povero papà l’acqua era limpida che si vedeva il fondo. Era una bellezza … Allora c’era l’acqua chiara come… vedevi in fondo al fiume la sabbia bella liscia, bella brillante”.

Corteo nuziale sulla passerella di Candoglia: gli sposi novelli sono Rosetta Tedeschi e Gino Gregorio, lei di Candoglia, lui di Ornavasso. La cerimonia fu celebrata nella chiesa di Albo e il pranzo si tenne ad Ornavasso. Foto gentilmente concessa da Alberto Vinzia
Nel 1922 iniziò il cantiere della passarella tra Ornavasso e Candoglia. Terminata nel 1925 e battezzata da un prete con la bottiglia, come con le barche nuove; la madrina era la signora Teresa Tazzini, dama milanese che possedeva una villa a Candoglia, poi della famiglia Cagnoli. Con la passerella finì la storia dei navaröi, i nocchieri del Toce.
In apertura: Il Traghetto sul Toce, da Edgardo Ferrari, Carlo Pessina, L’Ossola nella fotografia d’epoca, Domodossola, 1996, Grossi.
Si ringrazia Giorgio Vozza per il prezioso lavoro di revisione del testo.
Bibliografia: Enrico Bianchetti, L’Ossola Inferiore. Notizie storiche e documenti, Torino, 1878, Bocca; Francesco Zoppis, La Toce, ieri ed oggi lungo il suo corso, in “Popolo dell’Ossola”, 3 Giugno 1966; Enrico Rizzi, Anzola i secoli . una nostalgia, Anzola, Fondazione Architetto Enrico Monti, 1972; Cleto Barrera, Il mondo del boscaiolo, inserto “Eco Risveglio, 11 Giugno 1981; Felice Pattaroni, Autobiografia di un Ornavassese – Fatti Storici e Leggendari, s.l., 1982; Melchiorre Gioia, Vincenzo Cuoco, Materiali per la Statistica del Dipartimento dell’Agogna, a cura di Enrico Rizzi, Anzola d’Ossola,1996, Fondazione Architetto Enrico Monti; Edgardo Ferrari, Carlo Pessina, L’Ossola nella fotografia d’epoca, Domodossola, 1996, Grossi; A.A.V.V., a cura di Enrico Rizzi, Anzola. Una terra ossolana nella storia, Anzola, Fondazione Architetto Enrico Monti, 2000; Virginia Paravati, Aspettando la luna nuova. Dialoghi sul sapere delle donne a Ornavasso nella prima metà del Novecento, Verbania, 2007, Alberti; Giuseppe Armocida, Intorno alle regate dei Mazzarditi. Piccole storie del Lago Maggiore, Varese, 2009, Macchione Editore; Francesco Rusconi Clerici, Barche del Lago Maggiore, Verbania, 2013, Tararà.
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